55 - Cattiva “portorecanatesità”.
di Aurelio BUFALARI | pubblicato il 23/11/2004 | Stampa
"Portorecanatesità" è un termine emozionalmente carico perché rimanda a sentimenti di appartenenza fortemente avvertiti dalla gran parte dei portorecanatesi storici; ma è anche un cattivo concetto.
Un conto è infatti nutrire sentimenti di appartenenza, un altro è far discendere da tale sentimento una valutazione positiva su tutto ciò che appartiene o è appartenuto alla tradizione di questo paese. Si usa dire che essere portorecanatesi significa essere paciosi, essere buoni, essere semplici, essere genuini, e via su questa linea. Per garantirci nei confronti della sola contaminazione che temiamo, quella linguistica, indulgiamo con spropositato orgoglio nel mantenimento del dialetto, avvertito come segno indelebile di fedeltà alle radici.
I buoni sentimenti hanno tutto il diritto di essere mantenuti, coltivati ed incentivati; ma veramente questi sono buoni sentimenti e non piuttosto la maschera di una insufficienza culturale? Il concetto di portorecanatesità, però, può essere dialettizzato per vedere se i sottoconcetti che lo sostanziano non custodiscano in sé, non dico la propria negazione, ma sì il proprio limite antropologico.
Allora, l’esser paciosi può nascondere l’essere indolenti; l’esser buoni l’essere senza carattere; l’esser semplici l’essere poco evoluti; l’esser genuini il dire ciò che si pensa senza sapere ciò che si dice.

Per quel che riguarda il dialetto, poi, non mi sembra una grande risorsa visto che molti portorecanatesi parlano sì e no una ottantina di parole in italiano, con ciò atteggiandosi a chiusura nei confronti di ogni altro interlocutore che non sia indigeno. Insicurezza, quindi, e non riserbo – altra virtù, questa, che ancora ci piace attribuirci.
Come si vede ho usato tutta una serie di eufemismi che mi collocano più nel campo del “buon carattere” che non di quello “cattivo”.
Ma anch’io sono portorecanatese. Detto ciò, voglio entrare nel concetto della “buona portorecanatesità”, ammesso che ci riesca.
Porto Recanati è quella che è: un pò per necessità naturalistica, un pò per scelta dei suoi abitanti storici.
È un paese che gode di una invidiabile collocazione geografica e culturale: mare, monte Conero, due fiumi, campagna a portata di gambe, montagna a portata d’auto, Leopardi, Gigli, Santa Casa e chi più ne ha più ne metta.
Di veramente nostro, poca cosa. Ma c’è di nostro ciò che forse è nato da quella atavica indolenza che ha fatto sì che, nonostante le tante risorse, l’ambiente urbano ed extra urbano sia rimasto a lungo quasi allo stato naturale.
Scossicci, Montarice, Santa Maria in Potenza soltanto una ventina di anni fa erano ancora zone vergini, così come – mi riferisco sempre a quei tempi – gran parte della spiaggia.
Qui non si tratta di abbandonarsi ad un insulso “passatismo”, perché sono affezionato – come pochi – all’idea di progresso e perché ho ben presenti le necessità di un paese in evoluzione, ma gli è che noi – posso parlare per tutti? – siamo affezionati a questa prerogativa ed essere buoni portorecanatesi, secondo il mio punto di vista, significa difenderla con i denti.

Non per mero egoismo, ma per un sincero attaccamento al territorio, forse non desideriamo diventare una città di cinquantamila abitanti, pagare per andare in spiaggia e prendere la macchina per andare in campagna – quella poca che rimarrà. Dovremmo dunque essere più attratti dal nostro ambiente di vita che non dalla nostra tradizione e dai nostri più che evidenti difetti storici e caratteriali. La coscienza di ciò costituirebbe già di per sé quella che ho definito “buona portorecanatesità”.
La presente autocritica non va a toccare in nessun modo la disposizione nei confronti di chi ha scelto o vorrà scegliere il nostro paese per risiedervi, ma piuttosto noi stessi, la nostra costante assenza, come cittadini, dai luoghi dove si prendono le decisioni sul nostro futuro prossimo e lontano.
Lamentosi lo siamo di natura, ma non egualmente determinati rispetto a certi problemi.
Alla volontà altrui, non serve opporre l’indignazione morale, sì invece la propria volontà: lamentarsi non serve e, a lungo andare, ci rende ridicoli.


di Aurelio BUFALARI | pubblicato il 20/01/2005 | Stampa