Andate e Ritorni
Dopo aver passato gli ultimi cinque anni ad almeno cinquecento
chilometri da casa ho imparato ad assaporare i viaggi di
ritorno, a godermi l’attesa con gli occhi cullati dal finestrino
di un treno e nella mente immagini del mio paese frutto di un
ricordo di bambina più che di una recente realtà.
Poi arrivo a casa, mi guardo intorno e scopro che questo paese non è più mio di altri dove ho vissuto, ne conosco il passato ma il presente mi sfugge, potrei parlarne ed accorgermi di non sapere più cosa dire della sua gente, delle sue strade, della sua identità. Eppure Porto Recanati è più o meno la stessa, il lungomare, la piazza, il castello, tutti vestiti a nuovo, certo, ma pur sempre al loro posto.
E’ qualcos’altro a farmi sentire estranea e viandante. Sono i volti ad essere diversi, la società che è cresciuta ed è mutata nei suoi contenuti più intimi, nei colori della pelle, negli accenti stonati, nei vestiti che sanno d’oriente e d’occidente sposati insieme, senza vergogna. Mi aggiro per le strade, rubo pezzi di conversazione e mi convinco che non si tratta di un turismo di passaggio ma di un mutamento stabile della comunità.
Ma allora chi sono oggi i portorecanatesi, che cosa li definisce tali? L’immigrazione non è effimera, ha un suo peso preciso e la crescita positiva di una comunità dipende dalla sua capacità di accogliere l’estraneo al suo interno e renderlo cittadino a tutti gli effetti. Sta accadendo questo a Porto Recanati? E in che misura?
Accoglienza non è immediatamente sinonimo di integrazione, processo più lento e di certo aperto ad ampi dibattiti sulla salvaguardia dell’identità culturale di ciascun individuo.
Ma è comunque un modo positivo di porsi nei confronti della diversità, un modo di lanciare un messaggio di disponibilità. A giudicare dalla varietà dei volti che incrocio per le vie sembra che Porto Recanati sia riuscita a trovare uno spazio per chiunque l’abbia richiesto.
Mentre al governo la legge sull’immigrazione scatena l’ennesima battaglia parlamentare, per le strade di Porto Recanati la bandiera del Senegal viene applaudita dai passanti, mentre senegalesi in estasi per il successo della loro squadra ai mondiali insegnano nomi e mostrano eroi del pallone a chiunque voglia fermarsi ed ascoltare.
La comunità senegalese a Porto Recanati cresce di anno in anno, cerca di farsi stabile e di acquisire rispettabilità, si integra pur conservando la sua specifica identità, nella ricerca di quell’armonia tra presente e passato in cui i senegalesi sono maestri da sempre. I genitori si stabilizzano, nascono figli, nuove generazioni che cresceranno qui, insieme a noi. Verranno considerati portorecanatesi a tutti gli effetti? Cambieranno per questo abitudini e modalità d’espressione?
Credo sia ancora presto per dirlo, la strada è resa ancora più impervia dal clima mondiale di diffidenza per tutto ciò che viene dall’esterno, i recenti avvenimenti internazionali spingono a sprangare le frontiere ed erigere barricate, come se la paura e la violenza avessero un confine definito da cui difendersi.
Strada lunga, passi incerti, i venditori ambulanti vengono ancora guardati con sospetto e allontanati con una briciola di fastidio nella voce. Sono ancora tenuti ai margini, ancora un gradino al di sotto nella scala della dignità. Eppure in Senegal, in Marocco o in Algeria è normale trascinare una sacca, spingere un carretto pieni di mercanzia fino al luogo del mercato e dare inizio alle contrattazioni con l’arte antica della parola e dello scambio.
E’ quotidianità, gioiosa e umile quotidianità, non verrebbe in mente a nessuno di andarsene senza aver contrattato sul prezzo della merce, né considerare qualcuno inferiore perché vende occhiali da sole di plastica invece che macchine da corsa.
Sono stata in Africa e in Senegal mi hanno accolto sorrisi e strette di mano. Non mi hanno chiesto quanti soldi avevo in tasca né come mi guadagnavo da vivere, mi hanno fatto sedere al loro tavolo di legno e dal cibo diviso rigorosamente in parti uguali hanno offerto una ciotola anche a me. Ero io la straniera, io che per il colore della pelle spiccavo come un puntino bianco in una ciotola di caffè, eppure mi sono sentita a casa.
E il segreto è nei sorrisi eterni dei senegalesi, nonostante per tutto il giorno abbiano lottato contro mosche e calura, tra carretti ostinati e caparbie venditrici di pesce essiccato, nonostante tutte le preghiere siano già state inviate ai diversi nomi che l’uomo dà a Dio all’ombra dei manghi e dei baobab.
Continuano a sorridere, ad accogliere la diversità come una speranza di cambiamento, come promessa di un nuovo domani.
Forse è questo il senso del mal d’Africa, una nostalgia struggente per una terra che il colore della pelle non permette che sia tua, eppure ti accoglie e vuole essere madre.
Basterebbe cercare la storia dietro la persona, essere curiosi delle sue origini, dei suoi desideri e delle scelte che l’hanno spinta a partire.
Basterebbe non trincerarsi dietro parvenze nazionalistiche fatte di paura e vecchie abitudini e considerare ogni luogo un posto possibile dove vivere e ogni conversazione un’opportunità in più di crescita e arricchimento.
Non è poi questo il senso di un villaggio globale?
Poi arrivo a casa, mi guardo intorno e scopro che questo paese non è più mio di altri dove ho vissuto, ne conosco il passato ma il presente mi sfugge, potrei parlarne ed accorgermi di non sapere più cosa dire della sua gente, delle sue strade, della sua identità. Eppure Porto Recanati è più o meno la stessa, il lungomare, la piazza, il castello, tutti vestiti a nuovo, certo, ma pur sempre al loro posto.
E’ qualcos’altro a farmi sentire estranea e viandante. Sono i volti ad essere diversi, la società che è cresciuta ed è mutata nei suoi contenuti più intimi, nei colori della pelle, negli accenti stonati, nei vestiti che sanno d’oriente e d’occidente sposati insieme, senza vergogna. Mi aggiro per le strade, rubo pezzi di conversazione e mi convinco che non si tratta di un turismo di passaggio ma di un mutamento stabile della comunità.
Ma allora chi sono oggi i portorecanatesi, che cosa li definisce tali? L’immigrazione non è effimera, ha un suo peso preciso e la crescita positiva di una comunità dipende dalla sua capacità di accogliere l’estraneo al suo interno e renderlo cittadino a tutti gli effetti. Sta accadendo questo a Porto Recanati? E in che misura?
Accoglienza non è immediatamente sinonimo di integrazione, processo più lento e di certo aperto ad ampi dibattiti sulla salvaguardia dell’identità culturale di ciascun individuo.
Ma è comunque un modo positivo di porsi nei confronti della diversità, un modo di lanciare un messaggio di disponibilità. A giudicare dalla varietà dei volti che incrocio per le vie sembra che Porto Recanati sia riuscita a trovare uno spazio per chiunque l’abbia richiesto.
Mentre al governo la legge sull’immigrazione scatena l’ennesima battaglia parlamentare, per le strade di Porto Recanati la bandiera del Senegal viene applaudita dai passanti, mentre senegalesi in estasi per il successo della loro squadra ai mondiali insegnano nomi e mostrano eroi del pallone a chiunque voglia fermarsi ed ascoltare.
La comunità senegalese a Porto Recanati cresce di anno in anno, cerca di farsi stabile e di acquisire rispettabilità, si integra pur conservando la sua specifica identità, nella ricerca di quell’armonia tra presente e passato in cui i senegalesi sono maestri da sempre. I genitori si stabilizzano, nascono figli, nuove generazioni che cresceranno qui, insieme a noi. Verranno considerati portorecanatesi a tutti gli effetti? Cambieranno per questo abitudini e modalità d’espressione?
Credo sia ancora presto per dirlo, la strada è resa ancora più impervia dal clima mondiale di diffidenza per tutto ciò che viene dall’esterno, i recenti avvenimenti internazionali spingono a sprangare le frontiere ed erigere barricate, come se la paura e la violenza avessero un confine definito da cui difendersi.
Strada lunga, passi incerti, i venditori ambulanti vengono ancora guardati con sospetto e allontanati con una briciola di fastidio nella voce. Sono ancora tenuti ai margini, ancora un gradino al di sotto nella scala della dignità. Eppure in Senegal, in Marocco o in Algeria è normale trascinare una sacca, spingere un carretto pieni di mercanzia fino al luogo del mercato e dare inizio alle contrattazioni con l’arte antica della parola e dello scambio.
E’ quotidianità, gioiosa e umile quotidianità, non verrebbe in mente a nessuno di andarsene senza aver contrattato sul prezzo della merce, né considerare qualcuno inferiore perché vende occhiali da sole di plastica invece che macchine da corsa.
Sono stata in Africa e in Senegal mi hanno accolto sorrisi e strette di mano. Non mi hanno chiesto quanti soldi avevo in tasca né come mi guadagnavo da vivere, mi hanno fatto sedere al loro tavolo di legno e dal cibo diviso rigorosamente in parti uguali hanno offerto una ciotola anche a me. Ero io la straniera, io che per il colore della pelle spiccavo come un puntino bianco in una ciotola di caffè, eppure mi sono sentita a casa.
E il segreto è nei sorrisi eterni dei senegalesi, nonostante per tutto il giorno abbiano lottato contro mosche e calura, tra carretti ostinati e caparbie venditrici di pesce essiccato, nonostante tutte le preghiere siano già state inviate ai diversi nomi che l’uomo dà a Dio all’ombra dei manghi e dei baobab.
Continuano a sorridere, ad accogliere la diversità come una speranza di cambiamento, come promessa di un nuovo domani.
Forse è questo il senso del mal d’Africa, una nostalgia struggente per una terra che il colore della pelle non permette che sia tua, eppure ti accoglie e vuole essere madre.
Basterebbe cercare la storia dietro la persona, essere curiosi delle sue origini, dei suoi desideri e delle scelte che l’hanno spinta a partire.
Basterebbe non trincerarsi dietro parvenze nazionalistiche fatte di paura e vecchie abitudini e considerare ogni luogo un posto possibile dove vivere e ogni conversazione un’opportunità in più di crescita e arricchimento.
Non è poi questo il senso di un villaggio globale?