...“Se attribuissimo il carattere di realtà a ciò che è solo il prodotto del momento storico e del luogo geografico in cui siamo nati? Se ci rendessimo conto che tutto è determinato dalla posizione sociale che occupiamo, potremmo cambiare il corso delle nostre vite?”.




Bruschette e pomodoro.

Le piastrelle del bagno erano bianche, con strisce nere di sporco e umidità nei punti di congiunzione. I piedi arrossati risaltavano contro tanto chiarore e pensò che se fletteva la caviglia a guisa di cucchiaio, con le dita ben tese perpendicolari al soffitto, si formavano rughette marcate che prima non c’erano. Stava seduta nella tazza del bagno da circa mezz’ora, perché era il modo migliore per pensare in pace.
Le piastrelle aiutavano a fissare l’attenzione in un punto e trasmettevano un senso di ordine e silenzio. Qualcosa era andato storto nel suo sistema digestivo, l’intestino doveva aver interpretato come un ordine ottuso quel suo stare seduta così, nella tazza del cesso coi pantaloni abbassati. Stava invecchiando. Se lo disse senza chiederselo, con lo sguardo vuoto ancora fisso sulla caviglia arrugata.
Mancavano 15 giorni alle vacanze e si chiese che senso avesse continuare a credere che quel lavoro servisse a qualcuno. Alla fine si alzò e tirò lo sciacquone.
La pervase una sensazione di totale indifferenza all’intorno.

La scrivania era sempre ordinata, nonostante le avessero detto più volte che la confusione è sinonimo di creatività. Spesso ammucchiava i plichi da archiviare nel pavimento al lato della scrivania, quello le pareva un modo elegante di concepire il disordine. Ma da quando Rachel, la ragazza delle pulizie, aveva inciampato in una delle torri di carta, rovinando con la tazza del caffè e tutto il resto del corpo pesante sopra i suoi fogli, aveva deciso che lei era come era e il suo concetto di ordine non andava cambiato. Era una giornata afosa d’estate e l’apparato centrale dell’aria condizionata emetteva un ronzio costante, come il motore di una piccola barca lontana dalla costa ma ancora visibile.
Fu il giorno che decise che la sua vita non andava e bisognava cambiare qualcosa, senza ancora aver afferrato cosa esattamente cambiare e perché. Era una sensazione bizzarra per una mattina apparentemente monotona. Nessuna epifania rivelatrice, nessun evento particolarmente rilevante che avesse fatto luce su aspetti irrisolti della sua pur breve esistenza.
Generalmente si crede che le svolte radicali siano il frutto di un lungo e preciso processo di analisi interiore, dove le risposte alle inquietudini affiorano dolorosamente come tasselli precisi di un complotto armato con cura. A pochi viene in mente che si tratti di scoppi improvvisi di irrazionalità. Una volta aveva letto di un tizio che aveva lasciato la moglie, i tre figli e un futuro patinato per scappare con una ragazza dell’est e le era sembrato che quella dovesse essere una scelta esistenziale, a lungo ponderata al dritto e al rovescio per non perdere nulla che fosse essenziale, o almeno il suo senso della decenza le diceva così. Però poi si accorse che nel suo caso fu distinto. Mentre uno lavora non guarda la vita negli occhi, ma a volte capitano giorni meno pieni e nella mente iniziano a galleggiare a pelo nomi, parole che in quel momento non significano niente. Ma dopo uno capisce. Un giorno stava passando al computer il testo di un documento a cui andavano corretti le virgole e i punti.
L’aveva già fatto un sacco di volte, il capo era così, esatto. Fu allora, mentre rincorreva i segni di correzione sul foglio, che le era venuta un’improvvisa tachicardia ed un pensiero le era balenato per la mente: la fugace intuizione che la vita può anche cambiare corso e le opzioni possibili sono finite ma, nel loro contesto, amplissime. Le venne voglia di cioccolatini e di fatto non poté smettere di mangiare fino ad essere arrivata alla fine del pacchetto.

Quella sera, sotto la doccia, stette a lungo ad osservare il getto d’acqua scomporsi sul suo corpo, scendere ordinatamente per tutta la lunghezza dei capelli e trasformarsi in gocce rotonde e grasse sulle punte, per poi rovinare all’infinito sul fondo della vasca smaltata. Da qualche parte aveva letto che senza la coscienza i pensieri non sono pensabili. “E la coscienza chi è che l’attiva e chi è che la zittisce?”.
In fin dei conti, pensò, le aspettative di ciascun individuo sono proporzionali alle sue possibilità, se uno ha senno non si mette a desiderare traguardi che non potrà mai raggiungere
Le cadde l’occhio sul bordo esterno della vasca. Piccole impronte nere perfettamente circolari occupavano lo spazio lasciato dalle creme, saponi e detergenti che si era dimenticata di comprare. Passò un dito sulla superficie e il bianco delle piastrelle riemerse prepotente. “Se attribuissimo il carattere di realtà a ciò che è solo il prodotto del momento storico e del luogo geografico in cui siamo nati? Se ci rendessimo conto che tutto è determinato dalla posizione sociale che occupiamo, potremmo cambiare il corso delle nostre vite?”. Questo le venne in mente dopo, quando era già sul divano con la musica bassa e il gatto acciambellato in mezzo alle gambe. Immaginò la società come una scala di legno: ogni volta che qualcuno che stava in alto lasciava libero uno spazio che non gli faceva più comodo occupare, qualcun altro che stava in basso otteneva di spingersi fino ad un gradino superiore. Ma poi alla scala nasceva un altro braccio e la distanza tra individui restava la stessa, anche se su posizioni migliori. Si chiese quante braccia potesse permettersi la scala e quanto si potesse continuare a salire senza farsi venire la tentazione di guardare in basso e precipitare.

Finalmente suo marito uscì dal bagno. Aveva i capelli bagnati e appiccicati ai lati della testa. Si era anche affettato il mento col rasoio. Ogni volta che si radeva le provocava una sensazione strana, come se lo vedesse nudo per la prima volta e la cosa non le piacesse affatto. Pensò di dirglielo e in effetti aprì la bocca per dire qualcosa ma il fiato le rimase dentro e ci rinunciò. Dopo un po’ non si rendeva neanche più conto da quanto tempo se ne stava seduta lì, potevano essere dieci minuti, poteva essere di più. Ogni tanto, quando lui diceva qualcosa, lei alzava la testa e annuiva meccanicamente, con lo sguardo perso da un’altra parte. Come poteva continuare a chiacchierare e comportarsi come se lei fosse la stressa persona di ieri, di cinque minuti fa? Come poteva non rendersi conto che stava attraversando una crisi profonda e che il cuore rischiava di scoppiarle ogni cinque minuti? Accese una sigaretta.
Il gatto scivolò senza rumore sul pavimento e sparì da qualche parte in cucina. “Chi può mai sapere perché facciamo le cose che facciamo?” disse lui.
E allora capì che non sarebbe mai cambiato niente, ne era certa. La sua vita era ormai incamminata, le scelte fondamentali già prese. Pensandoci bene, le dava un senso di sicurezza pensare che qualsiasi cosa fosse accaduta l’esistenza avrebbe sempre e comunque ripreso il suo corso, senza il bisogno di metterla in moto. Così, per inerzia. Ma poi, con l’euforia tipica delle intuizioni improvvise, considerò che l’alternativa fosse spiegare tutto dentro una lettera. Si alzò velocemente e non disse niente. Prese carta e penna, infilò l’ombrello al braccio, controllò di avere tutte le chiavi e uscì. Ma quando si trovò di fronte alla cassetta delle lettere si limitò a fissarla, rimise il francobollo nella tasca della gonna e si allontanò, incapace di imbucare l’addio che aveva portato fin lì.

Sulla via del ritorno notò un profilo scomporsi nella vetrina di un caffè e lo sguardo le si popolò di lontananze. Durò solo un paio di secondi, il tempo di ricordarsi che per cena aveva promesso zucchine ripiene e bruschette al pomodoro. Non aveva ancora comprato niente. Dall’altro lato della strada una donna grassa vendeva piantine di basilico avvolte in cartocci di giornale. Mise una ciabatta nera di fronte all’altra e si avviò, senza troppo affrettarsi, in quella direzione.

L'ANGOLO DI LETIZIA - a cura di portorecanatesi.it