Definiamo l'Utopia
Forse è iniziato tutto con un fluire confuso e vociante lungo
il viale che dalla piramide di Rogier tira dritto verso la
Gare du Nord, dapprima in gruppi compatti e poi sempre più
fiume, ad ordine sparso dagli autobus pesanti, dalla
metropolitana rigonfia, dalle fermate degli tram, per strada,
con slalom audaci tra macchine imbottigliate da una marea
umana concitata e festosa. Quello che colpiva, a vedersi con
un certo distacco, non era tanto il numero, enorme, ma i
colori, tanti e sovrapposti, cappelli cappotti cartelli
striscioni e una babele di lingue sovrapposte, in marcia
verso il punto di ritrovo stabilito.
E’ stato un attimo ed ero dentro anch’io, stordita, stretta nel centro del corteo, cartelli alzati in alto il più alto possibile e adesivi orgogliosi sulle giacche di tutti, Not in my name, se guerra deve essere che guerra sia ma, attenzione, milioni di persone con una voce sola si sono tagliate fuori, guerra pure, ma non in mio nome.In nome di chi allora ci stanno facendo credere che questa guerra sia l’inevitabile prezzo per la nostra salvezza, in nome di chi si stanno attrezzando basi militari, allertando corpi scelti, tessendo reti diplomatiche tra due sponde dell’atlantico e preparando piani eccellenti per un “post”, qualunque esso sia? In nome della democrazia, della libertà, di una promessa di una pace più duratura, dopo, una volta estirpate (o sostituite…) le radici del male?
E se guerra non deve essere in nostro nome, allora in nome di cosa ci siamo schierati ieri, a difesa di chi? La questione è profonda e sta creando spaccature e imbarazzi, non solo tra gli Stati europei, che di fronte alla possibilità di porre le basi per la famosa politica estera comune, si sono accorpati alla rinfusa, dimostrandosi ancora troppo innamorati dei propri, contrastanti, interessi nazionali. Caotico è anche il dialogo all’interno di un’opinione pubblica che per ritrovarsi ha bisogno di etichette, per dare un nome alla propria appartenenza, ai propri presunti valori.
Eppure non basta gridare “pace” a squarciagola per salvarsi la coscienza, in questo ha ragione chi accusa i pacifisti di scarso attaccamento alla realtà e disinformazione. Così come è cecità vedere solo due estremi, guerra e pace, come fossero due assoluti sempre uguali a se stessi e la giustizia e la colpa facilmente collocabili agli estremi. L’imbarazzo è anche mio che mi sono trovata a cantare con le donne cilene canti di speranza, a marciare accanto all’immancabile cartellone del Che, eternamente giovane, eternamente dio.
E intanto a destra e a sinistra altri gruppi compatti sotto il simbolo di altre bandiere, con me nel mezzo senza la fiducia ad un clan, senza una sofferenza autentica da rivendicare.Poi c’è stato come un brivido che caldo e potente ha attraversato la folla, il ritmo coinvolgente della musica, la forza che la moltitudine imprime al singolo e lo fa sentire intimamente parte dell’insieme. Le grida che si levavano a tratti, alte verso un cielo di ghiaccio, chiamavano altre voci e la somma era un’onda forte e sicura.
Forse alcuni gridavano per sfogare una rabbia o un dolore, altri per gioco, altri per assuefazione ad uno spirito che al branco impone le sue leggi.
Ma il risultato complessivo dei milioni di persone scese in strada ieri è impossibile racchiuderlo nella richiesta intransigente di una pace, in questo momento altrettanto pericolosa di un conflitto.
C’è stata la volontà, piuttosto, di dimostrare che la maggioranza è stanca di essere rispettosa e muta, che se tanti, troppi, singoli individui, non si trovano più nelle decisioni di chi li rappresenta, allora la difesa del principio democratico salvaguarda il diritto e impone il dovere di riprendere parola. Se ci siamo schierati non è per vuoto spirito di rivolta, ma perché ognuno è ormai abbastanza cosciente degli interessi individuali che si nascondono dietro le scelte di monarchi più o meno illuminati, per lasciare che ancora una volta l’opzione per la vita o per la morte sia fatta in nome di tutti. Se Saddam disarmerà o prenderà la via dell’esilio o se l’America e i suoi alleati decideranno di non ricorrere alle armi, certo, non sarà solo perché milioni di persone hanno marciato contro la guerra, ma sicuramente perché ognuno dal suo lato della barricata e se dotato di sufficiente lungimiranza, avrà tirato le somme tra i costi e i benefici del proprio agire.
Ma è fondamentale che su questa decisione pesi enormemente il valore di quel marciare uniti, perché tutte le opinioni siano state tenute in debito conto e la scelta finale sia il frutto di un arrivo inevitabile, l’unico possibile.I cortei che hanno attraversato il mondo ieri non inseguivano un’“utopia pacifista”, come alcuni l’hanno definita, in quanto quello che è stato chiesto, cantato, urlato nei sondaggi di coloro ai quali toccherà infine decidere, non è un appello alla pace come valore in sé, come assoluto. Ciò che è stato chiesto, ciò che ho chiesto anch’io, è un appello affinché sia lasciata alla politica e alla mediazione la possibilità di proporre un modo diverso dal sangue per ricreare le condizioni essenziali dell’equilibrio che da tempo non esiste più, per un nuovo e duraturo intervallo che nella pace troverà, poi, il suo compimento.La pretesa di un impegno maggiore e non l’imposizione di una soluzione superficiale e vigliacca.
Mettiamo alla prova la nostra capacità di giudizio, mettiamo alla prova chi ci governa in virtù di un voto che è stato espressione di molti, dei più. Perché esistono tante sfumature per raccontare la stessa realtà e perché se dobbiamo proprio parlare di utopia quando pensiamo alla pace, vorrei pensare l’utopia non come il luogo che non esiste a mai potrà, ma piuttosto come al luogo dove si desidera andare.
E’ stato un attimo ed ero dentro anch’io, stordita, stretta nel centro del corteo, cartelli alzati in alto il più alto possibile e adesivi orgogliosi sulle giacche di tutti, Not in my name, se guerra deve essere che guerra sia ma, attenzione, milioni di persone con una voce sola si sono tagliate fuori, guerra pure, ma non in mio nome.In nome di chi allora ci stanno facendo credere che questa guerra sia l’inevitabile prezzo per la nostra salvezza, in nome di chi si stanno attrezzando basi militari, allertando corpi scelti, tessendo reti diplomatiche tra due sponde dell’atlantico e preparando piani eccellenti per un “post”, qualunque esso sia? In nome della democrazia, della libertà, di una promessa di una pace più duratura, dopo, una volta estirpate (o sostituite…) le radici del male?
E se guerra non deve essere in nostro nome, allora in nome di cosa ci siamo schierati ieri, a difesa di chi? La questione è profonda e sta creando spaccature e imbarazzi, non solo tra gli Stati europei, che di fronte alla possibilità di porre le basi per la famosa politica estera comune, si sono accorpati alla rinfusa, dimostrandosi ancora troppo innamorati dei propri, contrastanti, interessi nazionali. Caotico è anche il dialogo all’interno di un’opinione pubblica che per ritrovarsi ha bisogno di etichette, per dare un nome alla propria appartenenza, ai propri presunti valori.
Eppure non basta gridare “pace” a squarciagola per salvarsi la coscienza, in questo ha ragione chi accusa i pacifisti di scarso attaccamento alla realtà e disinformazione. Così come è cecità vedere solo due estremi, guerra e pace, come fossero due assoluti sempre uguali a se stessi e la giustizia e la colpa facilmente collocabili agli estremi. L’imbarazzo è anche mio che mi sono trovata a cantare con le donne cilene canti di speranza, a marciare accanto all’immancabile cartellone del Che, eternamente giovane, eternamente dio.
E intanto a destra e a sinistra altri gruppi compatti sotto il simbolo di altre bandiere, con me nel mezzo senza la fiducia ad un clan, senza una sofferenza autentica da rivendicare.Poi c’è stato come un brivido che caldo e potente ha attraversato la folla, il ritmo coinvolgente della musica, la forza che la moltitudine imprime al singolo e lo fa sentire intimamente parte dell’insieme. Le grida che si levavano a tratti, alte verso un cielo di ghiaccio, chiamavano altre voci e la somma era un’onda forte e sicura.
Forse alcuni gridavano per sfogare una rabbia o un dolore, altri per gioco, altri per assuefazione ad uno spirito che al branco impone le sue leggi.
Ma il risultato complessivo dei milioni di persone scese in strada ieri è impossibile racchiuderlo nella richiesta intransigente di una pace, in questo momento altrettanto pericolosa di un conflitto.
C’è stata la volontà, piuttosto, di dimostrare che la maggioranza è stanca di essere rispettosa e muta, che se tanti, troppi, singoli individui, non si trovano più nelle decisioni di chi li rappresenta, allora la difesa del principio democratico salvaguarda il diritto e impone il dovere di riprendere parola. Se ci siamo schierati non è per vuoto spirito di rivolta, ma perché ognuno è ormai abbastanza cosciente degli interessi individuali che si nascondono dietro le scelte di monarchi più o meno illuminati, per lasciare che ancora una volta l’opzione per la vita o per la morte sia fatta in nome di tutti. Se Saddam disarmerà o prenderà la via dell’esilio o se l’America e i suoi alleati decideranno di non ricorrere alle armi, certo, non sarà solo perché milioni di persone hanno marciato contro la guerra, ma sicuramente perché ognuno dal suo lato della barricata e se dotato di sufficiente lungimiranza, avrà tirato le somme tra i costi e i benefici del proprio agire.
Ma è fondamentale che su questa decisione pesi enormemente il valore di quel marciare uniti, perché tutte le opinioni siano state tenute in debito conto e la scelta finale sia il frutto di un arrivo inevitabile, l’unico possibile.I cortei che hanno attraversato il mondo ieri non inseguivano un’“utopia pacifista”, come alcuni l’hanno definita, in quanto quello che è stato chiesto, cantato, urlato nei sondaggi di coloro ai quali toccherà infine decidere, non è un appello alla pace come valore in sé, come assoluto. Ciò che è stato chiesto, ciò che ho chiesto anch’io, è un appello affinché sia lasciata alla politica e alla mediazione la possibilità di proporre un modo diverso dal sangue per ricreare le condizioni essenziali dell’equilibrio che da tempo non esiste più, per un nuovo e duraturo intervallo che nella pace troverà, poi, il suo compimento.La pretesa di un impegno maggiore e non l’imposizione di una soluzione superficiale e vigliacca.
Mettiamo alla prova la nostra capacità di giudizio, mettiamo alla prova chi ci governa in virtù di un voto che è stato espressione di molti, dei più. Perché esistono tante sfumature per raccontare la stessa realtà e perché se dobbiamo proprio parlare di utopia quando pensiamo alla pace, vorrei pensare l’utopia non come il luogo che non esiste a mai potrà, ma piuttosto come al luogo dove si desidera andare.