I Giochi.
Un manico di scopa non più utilizzabile, la «malta de fiumu» raccolta in un’ansa asciutta del Potenza, i bottoni di madreperla staccati da una maglia di lana
o dalla «fèdera del guanciale», sotto l’azione magica della fantasia infantile, diventavano elementi essenziali dei giochi dei nostri bambini.
Infatti, la vita grama, l’essenzialità nel mangiare e nel vestire, la scarsa disponibilità dei mezzi non potevano consentire ad un genitore di destinare «mancu un bajoccu» ai giochi dei propri figli.
La casa, angusta ed modesta, costringeva il ragazzo a cercare il suo spazio vitale nel vicolo e nelle «piazzette» del paese o sull’arenile «sotto la prua o sotta la pupa (o la poppa) d’una lancetta».
Tali elementi, in apparenza negativi permettevano invece di utilizzare, nel migliore dei modi, i mezzi a disposizione, creando altresì, con la fantasia, giochi ed atmosfere di rara suggestione.
L’altro contendente stazionava a debita distanza dal cerchio e, dopo la terza battuta, si impossessava del tronchetto,
«el pirulì» per poi lanciarlo in direzione del cerchio.
Se il battitore non lo colpiva ed il «pirulì» si fermava all’interno del cerchio chi lo aveva lanciato acquisiva il diritto di entrare nella base in qualità di battitore.
Prendeva le due parti e cercava di unirle di nuovo trattenendole con le dita. Faceva girare il compagno, gli mostrava il sasso ricomposto e chiedeva «È rottu o sanu ?» Se l’altro indovinava si alternava nel condurre il giuoco ripetendo la stessa operazione.
Per ingannare l’avversario si ricorreva spesso all’aiuto di un capello; infatti questo veniva posto, ben teso verso la metà del sasso in modo da dare l’impressione che fosse rotto.
Alla larghezza, nella parte alta, veniva poi aggiunto un semicerchio. Il rettangolo era diviso a sua volta in quattro rettangoli uguali. Il terzo di questi, a partire dalla base, era intersecato da due diagonali che lo trasformavano in quattro triangoli. Le otto parti ottenute venivano numerate progressivamente a partire, con il numero uno dal primo rettangolo.
Dopo il sorteggio il primo concorrente, da una distanza prestabilita, lanciava «la piastra», un sasso appiattito, nella prima casella.
Se riusciva nell’intento di centrarla saltellando su di un piede entrava nel primo rettangolo, raccoglieva il sasso flettendosi, poi riassumendo la forma eretta saltava nel secondo a piedi pari. Quindi continuava saltando nel terzo, divaricava le gambe e poneva i piedi nei due triangoli laterali.
Da qui, con un solo piede passava nell’ultima casella per poi saltare nel semicerchio, dove era consentita la sosta.
Dopo la sosta riprendeva la via del ritorno ripetendo le stesse azioni.
Se tutto era regolare, cioè se con i piedi non finiva su una riga o su una casella errata, il concorrente aveva la possibilità di iniziare la seconda fare.
Questa consisteva nello spingere con il piede «la piastra» da riquadro in riquadro, saltellando con una sola gamba.
Poi, nella terza fase la piastrella veniva posta sul piede e nel¬la quarta sulla fronte, sempre ripetendo lo stesso percorso.
L’ultima fase, la più difficile veniva affrontata in compagnia di un altro concorrente che aveva il compito di tenere una mano sugli occhi dell’avversario, il quale, ad intuito, doveva ripetere il percorso. Se con i piedi entrava in una casella sbagliata chi lo accompagnava diceva «amaro» se invece coglieva la giusta gli dava il consenso a proseguire dicendo: «dolce».
Il concorrente che riusciva a compiere anche questo percorso senza errori acquisiva la proprietà di una casella che veniva scelta scagliando la «piastra» sul «campanò» volgendo le spalle contro.
Chi conquistava più riquadri risultava vincitore del giuoco.
Mentre lui, ad alta voce, contava progressivamente, sino ad un numero stabilito in precedenza dal grup¬po, gli altri correvano a nascondersi.
Il punto dove lui si appoggiava era chia¬mato «tana». Al termine del conteggio quello che «stacéa sotta» iniziava le ricerche degli altri, senza allontanarsi troppo dalla tana; infatti chi riusciva a «fa’ tana» cioè a toccare con la mano il posto stabilito si «liberava» cioè nella tornata successiva del giuoco non poteva andare «sotta».
Se tutti si liberavano chi «stacéa sotta» doveva contare di nuovo, chi invece veniva individuato doveva prendere il suo posto.
L’ultimo che mancava «alla conta» se riusciva a «fa’ tana prima di quello che era sotto gridava «Liberi tutti» con queste parole liberava anche quelli che erano stati individuati ed il giuoco riprendeva con quello che stava «sotta».
Veniva effettuato in più di dieci ragazzi. La squadra che «stacéa sotta» (stava sotto) era capeggiata da un ragazzo che si poneva con le spalle contro il muro.
Un secondo lo prendeva «per la ‘ita» cioé lo stringeva con le braccia ai fianchi e poggiava la sua testa contro il petto dell’altro, flettendo il suo busto. Il terzo, anch’egli ricurvo si appoggiava al secondo e così via.
I componenti l’altra squadra, uno alla volta, dopo aver preso la rincorsa saltavano sul «ca ‘allu longo» cercando di arrivare il più possibile vicino al primo dell’altra squadra, lasciando il massimo spazio agli altri.
Quando tutti avevano saltato, piazzandosi più o meno bene sui dorsi degli avversari incominciava «la meju parte» cioè la seconda squadra cercava di stare in equilibrio restando sopra il più possibile fiaccando la resistenza degli avversari.
Se qualcuno che stava sopra «tuccàa tera cu’ un pìa» c’era il cambio delle posizioni e si riprendeva il giuoco.
Se invece c’era il cedimento da parte di uno tra quelli che stavano sotto questi erano condannati a restarvi.
La presenza di tante barche, (infatti il gioco si svolgeva prevalentemente lungo l'arenile), rendeva difficoltosa la completa individuazione dell'altro gruppo. Quando questa avveniva si invertivano le parti fino al calar della notte quando era d'obbligo rientrare in casa.
Attorno al «ferettu» si metteva una grande quantità di sabbia sino a ricoprirlo interamente.
Compiuta tale operazione si procedeva «alla conta» tra i partecipanti al gioco. Il prescelto aveva a disposizione tre interventi con il mento, «le sbarbate» con i quali cercava di togliere la maggiore quantità di sabbia attorno al «feru». Se questi non erano sufficienti alla individuazione poteva usufruire anche di tre soffiate per pulire nel modo migliore la testa del ferretto che doveva essere poi «sfilzata» con i denti.
Tutta questa operazione doveva essere effettuata con le braccia dietro la schiena ed in ginocchio.
Chi tra i concorrenti non riusciva a terminare il giuoco perché con i suoi interventi non era riuscito a liberare il «feru» doveva fare una penitenza nella quale era prevista una buona «magnata de tera»; infatti con la stessa procedura del ferro doveva trovare un sasso nascosto nella sabbia.
Questa penitenza era chiamata «El pappò».
Non appena un giocatore veniva raggiunto diventava lui portatore della «muffa».
Se qualcuno doveva fermarsi un attimo per ragioni di vario tipo doveva dire la parola «stoppa» così non correva il rischio di essere toccato.
La sosta però doveva essere brevissima.
Molte volte il giuoco, che durava ore ed ore, doveva essere portato a termine per il sopraggiungere della sera ed il poverino che non era riuscito a darla ad un altro tornava a casa «cu ‘ la muffa» cosa questa che tra i ragazzi era motivo di disonore e quasi sempre veniva concluso con una sorta di cantilena che diceva ""Vai a lettu cu' la muffa, vai a lettu cu' la muffa.
Queste venivano raccolte dai ragazzi per giocarci dentro «viguli» del paese o sul lungo mare.
Chi partecipava al giuoco metteva il suo numero di cartucce in fila, poi i concorrenti si allontanavano dalla fila una trentina di metri, segnando in terra il limite comune, non valicabile, dal quale tiravano «piastre» dei sassi raccolti sulla battigia, pesanti ma piatti.
Chi colpiva la fila si assicurava tutte le cartucce che cadevano. Alcune di queste che avevano il fondo in ottone doppio rispetto alle altre erano chiamate «acciò» e valevano per due cartucce.
Il tiro si poteva effettuare sia «a strigiò» (di striscio, rasoterra), sia «a piumbò» (cioè con caduta della piastra sulle cartucce).
Sulla sabbia, dopo «la conta» si tracciava una pista per la cui realizzazione veniva adoperato il fondo dei pantaloni di chi perdeva la conta il quale questo veniva preso per le gambe dai compagni e per le spalle da un altro, allo scopo di aumentarne il peso e, di conseguenza, anche la pressione sulla sabbia, trascinandolo così lungo il percorso a forma di ellisse precedentemente disegnto con il piede sulla sabbia da un altro concorrente.
Con «dò zzeppette» di legno (piccoli listelli)«ed un foglio di carta rettangolare si segnava il traguardo.
Uno alla volta, i concorrenti, si alternavano al tiro effettuato ponendo la pallina nella parte alta della pista e «sparando» il dito medio dopo averlo trattenuto a lungo con il pollice.
Chi usciva dalla pista doveva osservare un turno di riposo. Il traguardo finale era fissato dopo due o tre giri dell’intero percorso.
Era però difficile avere tutta la serie delle figurine che favevano parte della collezione e spesso si possedevamo numerosi doppioni. Il gioco delle figurine permetteva di avere un gran numero di figurine per gli scambi.
I giocatori si radunavano con i loro mazzetti di figurine vicini a un piano rialzato, di solito un muretto, facendo cadere da una certa altezza con la mano la figurina a terra.
Vinceva tutte le figurine rimaste in terra chi riusciva a lanciare la figurina facendola sovrapporre a una delle altre già in terra.
Questa operazione avveniva avvitando il dado sino a metà e riempendo il foro che si creava con la polvere ottenuta dalla miscela; poi si riavvitava lentamente e con cautela.
Al termine si lanciava la vite «sul piangìto» (pavimento) ottenendo un forte scoppio.
Questi spari venivano eseguiti in occasione di feste importanti ed in particolare per la «Venuta», e la notte di San Silvestro.
L'abilità consisteva nel saper colpire le »pizze» di palline sistemate in terra come piccole piramidi (quattro palline).
Le modalità di lancio della singola pallina che doveva colpire quelle sistemate a terra variavano a seconda delle singole abilità di chi prendeva parte al gioco (a strigiò o a piumbò). Variava la distanza di lancio. Le palline colpite erano vinte.
La «onda» era usata per uccidere lucertole, uccelli e sopratutto «i rundulò».
«I astighi e la sòla» venivano fissati con lo spago.
Un temerario e coraggioso ragazzo, con le dita, dopo aver circondato la base del barattolo di terra, occludeva i fori, mentre l’altro dava a fuoco il foglio di carta posto sulla canna. In un baleno l’operazione scoppio veniva eseguita: chi teneva le dita sul barattolo si allontanava e l’altro accostava la fiamma ai fori, il gas acetilenico faceva il resto.
Un gran botto e raramente qualche incidente di lieve entità per chi non era svelto ad allontanarsi dal barattolo che, per lo scoppio, saltava in aria.
La maestria consisteva nel saper colpire le Pizze (piccole piramidi formate da 4 palline).
Le modalità per colpirle erano diverse: a strigiò o a piumbò, come pure diverse erano le distanze da cui colpire e l'entità della posta in gioco.
Infatti, la vita grama, l’essenzialità nel mangiare e nel vestire, la scarsa disponibilità dei mezzi non potevano consentire ad un genitore di destinare «mancu un bajoccu» ai giochi dei propri figli.
La casa, angusta ed modesta, costringeva il ragazzo a cercare il suo spazio vitale nel vicolo e nelle «piazzette» del paese o sull’arenile «sotto la prua o sotta la pupa (o la poppa) d’una lancetta».
Tali elementi, in apparenza negativi permettevano invece di utilizzare, nel migliore dei modi, i mezzi a disposizione, creando altresì, con la fantasia, giochi ed atmosfere di rara suggestione.
El Pirulì’. (La nizza)
La base del giuoco era costituita da un cerchio il cui diametro era misurato a passi. All’interno si poneva, come battitore, un ragazzo munito di bastone.
Per dare inizio al giuoco questo colpiva un tronchetto dello stesso bastone, tagliato in precedenza e ben appuntito alle estremità,
cercando di allontanarlo il più possibile dal cerchio stesso.L’altro contendente stazionava a debita distanza dal cerchio e, dopo la terza battuta, si impossessava del tronchetto,
«el pirulì» per poi lanciarlo in direzione del cerchio.
Se il battitore non lo colpiva ed il «pirulì» si fermava all’interno del cerchio chi lo aveva lanciato acquisiva il diritto di entrare nella base in qualità di battitore.
Sanu e Rottu
Un giocatore raccoglieva sulla battigia un sasso piatto poi invitava l’altro a girarsi in modo che questo non lo vedesse. Poi con un altro sasso batteva
sopra il primo in modo da spezzarlo in due.Prendeva le due parti e cercava di unirle di nuovo trattenendole con le dita. Faceva girare il compagno, gli mostrava il sasso ricomposto e chiedeva «È rottu o sanu ?» Se l’altro indovinava si alternava nel condurre il giuoco ripetendo la stessa operazione.
Per ingannare l’avversario si ricorreva spesso all’aiuto di un capello; infatti questo veniva posto, ben teso verso la metà del sasso in modo da dare l’impressione che fosse rotto.
Battemuro
Quattro o cinque ragazzi si ponevano alla stssa distanza da un muro e poi, alternativamente, in rigoroso ordine di sorteggio, cercavano di tirare, ai piedi
del muro stesso, una moneta. Chi si accostava di più alla base ek muro vinceva la patita e prendeva tutte le monete degli altri.
El Campanò. (La grande campana)
Con un pezzo di carbone o di gesso si disegnava in terra o «sul piangìtu» un rettangolo con la lunghezza posta in senso verticale.Alla larghezza, nella parte alta, veniva poi aggiunto un semicerchio. Il rettangolo era diviso a sua volta in quattro rettangoli uguali. Il terzo di questi, a partire dalla base, era intersecato da due diagonali che lo trasformavano in quattro triangoli. Le otto parti ottenute venivano numerate progressivamente a partire, con il numero uno dal primo rettangolo.
Dopo il sorteggio il primo concorrente, da una distanza prestabilita, lanciava «la piastra», un sasso appiattito, nella prima casella.
Se riusciva nell’intento di centrarla saltellando su di un piede entrava nel primo rettangolo, raccoglieva il sasso flettendosi, poi riassumendo la forma eretta saltava nel secondo a piedi pari. Quindi continuava saltando nel terzo, divaricava le gambe e poneva i piedi nei due triangoli laterali.
Da qui, con un solo piede passava nell’ultima casella per poi saltare nel semicerchio, dove era consentita la sosta.
Dopo la sosta riprendeva la via del ritorno ripetendo le stesse azioni.
Se tutto era regolare, cioè se con i piedi non finiva su una riga o su una casella errata, il concorrente aveva la possibilità di iniziare la seconda fare.
Questa consisteva nello spingere con il piede «la piastra» da riquadro in riquadro, saltellando con una sola gamba.
Poi, nella terza fase la piastrella veniva posta sul piede e nel¬la quarta sulla fronte, sempre ripetendo lo stesso percorso.
L’ultima fase, la più difficile veniva affrontata in compagnia di un altro concorrente che aveva il compito di tenere una mano sugli occhi dell’avversario, il quale, ad intuito, doveva ripetere il percorso. Se con i piedi entrava in una casella sbagliata chi lo accompagnava diceva «amaro» se invece coglieva la giusta gli dava il consenso a proseguire dicendo: «dolce».
Il concorrente che riusciva a compiere anche questo percorso senza errori acquisiva la proprietà di una casella che veniva scelta scagliando la «piastra» sul «campanò» volgendo le spalle contro.
Chi conquistava più riquadri risultava vincitore del giuoco.
A Giaggià. (a nascondino)
Era un giuoco di gruppo. I partecipanti si riunivano in cerchio e «facéene la conta» cioé ognuno con una mano chiusa e l’altra aperta da una o più dita dava
il suo punteggio. Si sommava il numero delle dita poi si cominciava a contare da destra a sinistra a partire da chi guidava il conto.
Il prescelto dalla sorte poneva il suo avambraccio sul muro o sul tronco di un albero poi si appoggiava il viso per non vedere.Mentre lui, ad alta voce, contava progressivamente, sino ad un numero stabilito in precedenza dal grup¬po, gli altri correvano a nascondersi.
Il punto dove lui si appoggiava era chia¬mato «tana». Al termine del conteggio quello che «stacéa sotta» iniziava le ricerche degli altri, senza allontanarsi troppo dalla tana; infatti chi riusciva a «fa’ tana» cioè a toccare con la mano il posto stabilito si «liberava» cioè nella tornata successiva del giuoco non poteva andare «sotta».
Se tutti si liberavano chi «stacéa sotta» doveva contare di nuovo, chi invece veniva individuato doveva prendere il suo posto.
L’ultimo che mancava «alla conta» se riusciva a «fa’ tana prima di quello che era sotto gridava «Liberi tutti» con queste parole liberava anche quelli che erano stati individuati ed il giuoco riprendeva con quello che stava «sotta».
A Ca’allu Longu.
Un altro giuoco di gruppo che richiedeva però una certa resistenza fisica.Veniva effettuato in più di dieci ragazzi. La squadra che «stacéa sotta» (stava sotto) era capeggiata da un ragazzo che si poneva con le spalle contro il muro.
Un secondo lo prendeva «per la ‘ita» cioé lo stringeva con le braccia ai fianchi e poggiava la sua testa contro il petto dell’altro, flettendo il suo busto. Il terzo, anch’egli ricurvo si appoggiava al secondo e così via.
I componenti l’altra squadra, uno alla volta, dopo aver preso la rincorsa saltavano sul «ca ‘allu longo» cercando di arrivare il più possibile vicino al primo dell’altra squadra, lasciando il massimo spazio agli altri.
Quando tutti avevano saltato, piazzandosi più o meno bene sui dorsi degli avversari incominciava «la meju parte» cioè la seconda squadra cercava di stare in equilibrio restando sopra il più possibile fiaccando la resistenza degli avversari.
Se qualcuno che stava sopra «tuccàa tera cu’ un pìa» c’era il cambio delle posizioni e si riprendeva il giuoco.
Se invece c’era il cedimento da parte di uno tra quelli che stavano sotto questi erano condannati a restarvi.
A Tanjengu.
« A tenjenguuuu... ce semu spersi el bibinellu ... ». Questo era il grido che un gruppo allontanandosi da un altro
gruppo, molto tempo prima, mendava nell'aria per segnalare in modo approssimativo la sua posizione. Il primo gruppo che, in attesa del grido,
era rimasto fermo al suo posto, si metteva in movimento alla ricerca di tutti i componenti dell'altro gruppo.La presenza di tante barche, (infatti il gioco si svolgeva prevalentemente lungo l'arenile), rendeva difficoltosa la completa individuazione dell'altro gruppo. Quando questa avveniva si invertivano le parti fino al calar della notte quando era d'obbligo rientrare in casa.
El Ferettu e el Pappò.
Questo giuoco si svolgeva sulla sabbia tra tre o quattro ragazzi. Si prendeva un pezzo di filo di ferro lungo una ventina di centimetri, «el feru filatu»
e «cu’ le pinze» si faceva una specie di anello in una delle due estremità; poi lo si poneva nella sabbia in modo eretto, tenendo in alto la parte ricurva.Attorno al «ferettu» si metteva una grande quantità di sabbia sino a ricoprirlo interamente.
Compiuta tale operazione si procedeva «alla conta» tra i partecipanti al gioco. Il prescelto aveva a disposizione tre interventi con il mento, «le sbarbate» con i quali cercava di togliere la maggiore quantità di sabbia attorno al «feru». Se questi non erano sufficienti alla individuazione poteva usufruire anche di tre soffiate per pulire nel modo migliore la testa del ferretto che doveva essere poi «sfilzata» con i denti.
Tutta questa operazione doveva essere effettuata con le braccia dietro la schiena ed in ginocchio.
Chi tra i concorrenti non riusciva a terminare il giuoco perché con i suoi interventi non era riuscito a liberare il «feru» doveva fare una penitenza nella quale era prevista una buona «magnata de tera»; infatti con la stessa procedura del ferro doveva trovare un sasso nascosto nella sabbia.
Questa penitenza era chiamata «El pappò».
La Muffa
Prima c’era «la conta» e lo sfortunato a cui capitava l’ultimo numero aveva «la muffa» cioè doveva cercare di toccare
con la mano uno degli altri giuocatori che «al via» si erano sparsi un pò ovunque.Non appena un giocatore veniva raggiunto diventava lui portatore della «muffa».
Se qualcuno doveva fermarsi un attimo per ragioni di vario tipo doveva dire la parola «stoppa» così non correva il rischio di essere toccato.
La sosta però doveva essere brevissima.
Molte volte il giuoco, che durava ore ed ore, doveva essere portato a termine per il sopraggiungere della sera ed il poverino che non era riuscito a darla ad un altro tornava a casa «cu ‘ la muffa» cosa questa che tra i ragazzi era motivo di disonore e quasi sempre veniva concluso con una sorta di cantilena che diceva ""Vai a lettu cu' la muffa, vai a lettu cu' la muffa.
Le Piastre e le Cartucce
Durante le «incursioni» in campagna per prendere «i tutuli pe’ ‘l bruschettu» (granoturco da arrostire)o «alla costa delle mandule»
per raccogliere «i mandulì» cioè le mandorle ancora verdi, c’era la possibilità di trovare anche le cartucce usate dai cacciatori.Queste venivano raccolte dai ragazzi per giocarci dentro «viguli» del paese o sul lungo mare.
Chi partecipava al giuoco metteva il suo numero di cartucce in fila, poi i concorrenti si allontanavano dalla fila una trentina di metri, segnando in terra il limite comune, non valicabile, dal quale tiravano «piastre» dei sassi raccolti sulla battigia, pesanti ma piatti.
Chi colpiva la fila si assicurava tutte le cartucce che cadevano. Alcune di queste che avevano il fondo in ottone doppio rispetto alle altre erano chiamate «acciò» e valevano per due cartucce.
Il tiro si poteva effettuare sia «a strigiò» (di striscio, rasoterra), sia «a piumbò» (cioè con caduta della piastra sulle cartucce).
I Rutulì
Con il sughero usato per rendere la parte superiore della rete galleggiante si facevano «i rutulì» cioè delle palline di dimensioni superiori
alle normali biglie di terracotta.Sulla sabbia, dopo «la conta» si tracciava una pista per la cui realizzazione veniva adoperato il fondo dei pantaloni di chi perdeva la conta il quale questo veniva preso per le gambe dai compagni e per le spalle da un altro, allo scopo di aumentarne il peso e, di conseguenza, anche la pressione sulla sabbia, trascinandolo così lungo il percorso a forma di ellisse precedentemente disegnto con il piede sulla sabbia da un altro concorrente.
Con «dò zzeppette» di legno (piccoli listelli)«ed un foglio di carta rettangolare si segnava il traguardo.
Uno alla volta, i concorrenti, si alternavano al tiro effettuato ponendo la pallina nella parte alta della pista e «sparando» il dito medio dopo averlo trattenuto a lungo con il pollice.
Chi usciva dalla pista doveva osservare un turno di riposo. Il traguardo finale era fissato dopo due o tre giri dell’intero percorso.
Le Figurine
Le figurine del tipo "Panini" di solite collezionate e incollate su un apposito album, permettevano di soddisfare il desiderio di collezionismo dei ragazzi del Porto.Era però difficile avere tutta la serie delle figurine che favevano parte della collezione e spesso si possedevamo numerosi doppioni. Il gioco delle figurine permetteva di avere un gran numero di figurine per gli scambi.
I giocatori si radunavano con i loro mazzetti di figurine vicini a un piano rialzato, di solito un muretto, facendo cadere da una certa altezza con la mano la figurina a terra.
Vinceva tutte le figurine rimaste in terra chi riusciva a lanciare la figurina facendola sovrapporre a una delle altre già in terra.
I spari cu' la Vite
Si prendeva una vite di ferro, si «svitava» il dado e nella filettatura si metteva zolfo e clorato di potassio ben miscelati.Questa operazione avveniva avvitando il dado sino a metà e riempendo il foro che si creava con la polvere ottenuta dalla miscela; poi si riavvitava lentamente e con cautela.
Al termine si lanciava la vite «sul piangìto» (pavimento) ottenendo un forte scoppio.
Questi spari venivano eseguiti in occasione di feste importanti ed in particolare per la «Venuta», e la notte di San Silvestro.
l Gioco con le Palline
Molto praticato era il gioco con le palline, piccole biglie di terracotta colorata eppoi succcessivamente di vetro.L'abilità consisteva nel saper colpire le »pizze» di palline sistemate in terra come piccole piramidi (quattro palline).
Le modalità di lancio della singola pallina che doveva colpire quelle sistemate a terra variavano a seconda delle singole abilità di chi prendeva parte al gioco (a strigiò o a piumbò). Variava la distanza di lancio. Le palline colpite erano vinte.
La Onda
Era una fionda ottenuta con «el curnettu» ricavato da un ramo d’albero forma di V, «i astighi» due strisce
di gomma della larghezza di un centimetro tagliati da una vecchia gomma d’auto o di bicicletta, e «la sòla», un pezzo di pelle dura di forma
circolare un pò oblunga, capace di contenere «la breccula» un sassolino di discrete dimensioni.La «onda» era usata per uccidere lucertole, uccelli e sopratutto «i rundulò».
«I astighi e la sòla» venivano fissati con lo spago.
I spari cu'l garburu
Un barattolo con due fori nella parte chiusa, un pezzo di carburo, una canna lunga con in cima un foglietto di carta,
«i furminanti», alcuni fiammiferi, e una gran voglia di rischiare.
Questi erano gli ingredienti necessari per ottenere degli spari memorabili.
Si poneva in terra il carburo, usato per la lampada ad acetilene, si metteva sopra un buon spruzzo di saliva e si copriva il tutto con il barattolo.Un temerario e coraggioso ragazzo, con le dita, dopo aver circondato la base del barattolo di terra, occludeva i fori, mentre l’altro dava a fuoco il foglio di carta posto sulla canna. In un baleno l’operazione scoppio veniva eseguita: chi teneva le dita sul barattolo si allontanava e l’altro accostava la fiamma ai fori, il gas acetilenico faceva il resto.
Un gran botto e raramente qualche incidente di lieve entità per chi non era svelto ad allontanarsi dal barattolo che, per lo scoppio, saltava in aria.
Le palline (di coccio o di vetro)
Molto spazio del tempo libero era dedicato alle gare con le palline (piccole biglie di terracotta colorata o anche di vetro).La maestria consisteva nel saper colpire le Pizze (piccole piramidi formate da 4 palline).
Le modalità per colpirle erano diverse: a strigiò o a piumbò, come pure diverse erano le distanze da cui colpire e l'entità della posta in gioco.
tratto da: « C'era 'na ô » di Emilio Gardini ( Edizioni Tecnostampa Recanati - dicembre 1994 )