La Cantina.

Con questo nome veniva indicata il luogo molto somigliante ad una bettola dove gran parte dei pescatori trascorreva il tempo libero. Questa, se era di dimensioni ragguardevoli era chiamata «Cantinò».
Alcune cantine erano frequentate in prevalenza da pescatori che lavoravano sui barchetti, gli schilletti e le lancette, mentre altre servivano come luogo di svago agli «sciabbegotti».
La cantina era frequentata soprattutto nei periodi invernali o quando c'era burrasca ed in particolare di pomeriggio.
I pescatori si portavano la «mbrenna» una specie di merenda molto parca, a volte fatta anche «de rumigaja e cicinelli» ovvero piccoli pesci fritti in casa dalla moglie e vi bevevano sopra del vino sfuso molto dozzinale.
Qui si mangiava, si beveva si facevano interminabili partite di «trucco» gioco di carte importato dagli emigrati di ritorno dall'Argentina.
Quando i gradi dell' alcool contenuti nel vino si facevano sentire si cominciava a cantare, stornelli, dispetti e canzoni legate al mondo del mare e della pesca, nonché brani di celebri opere.
Famose tra queste «el minestrò» un canto che è la sintesi felice di tanti altri ben «miscelati» da qualche pescatore dotato di buon orecchio musicale.

A Sammarì
Le cantine note erano quelle de Incè de Pizzu, de Fiore, de Nita de la riccia, de Maria de Burdi.

 
A Castennou
Era famosa quella de Francè de Grespì, la prima delle due che possedeva, si trovava dove ora c'è l'Hotel Bianchi Nicola, all'inizio di via Palestro e qualche pescatore ne ricorda ancora la parete di fondo nella quale campeggiavano dipinti un grande fiasco di vino ed un cocomero.
Nei pressi di Piazza Brancondi c'era Filumena de Piu.

Al centro
C'era la cantina della "Scocca" molto vicina alla chiesa e al portone dei salesiani mentre nella parte sud, proprio sul lungomare, era famosissimo «el cantinò» de Checcu del Cantinò, un oste che prese proprio il soprannome del locale che gestiva.


altro ancora sulla cantina

La cantina era, di solito, un lungo stanzone debolmente illuminato, ai cui lati si trovavano tavoli di 3/4 metri per un metro circa: gli avventori sedevano su panche prive di schienale, poste ai lati. La parete di fondo era occupata dal bancone sul quale troneggiavano le botti del vino con i rubinetti in continua attività.
Entrando si rimaneva colpiti dal gioco di ombre cinesi proiettate sull’alto soffitto; profili di facce spigolose, schizzi di mani e braccia alzate per imprecare o ammonire, minacciare o descrivere: il tutto sorretto da un mor­morio sommesso interrotto, di tanto in tanto, da un richiamo festoso o da una avvelenata imprecazione.
Dalle quattro del pomeriggio alle sette, sette e mezzo di sera, i locali di Alberto Cittadini in via della Stazione, quelli di Cavallari, del Torcoletto in via Larga, di Giri a Castelnuovo e tutti gli altri (circa una ventina), si riem­pivano di avventori davanti al naso dei quali, tra la nebbia del fumo dei sigari, sparivano e riapparivano con sorprendente rapidità le fogliette da un quarto, da mezzo litro o da un litro, sempre attentamente controllate dai clienti affinché l’oste non facesse el cullarì, vale a dire non arrivasse a ver­sare il vino fino al segno circolare sul collo della foglietta.

Quando l’atmosfera si era abbastanza scaldata cominciavano i cori: stornelli e anti vari.
Inevitabili le canzoni che fanno riferimento al mare, mentre i più ‘raffinati’ si commuovevano sulle note del Va pensiero e della Vergine degli angeli o su quelle del Miserere che si intonava anche per la bara de notte.

Gli argomenti preferiti nella conversazione riguardavano il lavoro, i guadagni, i problemi con i colleghi, i fatti di vita quotidiana e qualche volta si accendevano delle liti che avevano come conseguenza il "togliersi il saluto e la parola".


tratto da: « C'era 'na ô » di Emilio Gardini ( Edizioni Tecnostampa Recanati - dicembre 1994 )