I vecchi pescatori, nei momenti in cui non «remacchiano» le reti (cioè ne riparano le maglie), amano riunirsi «a brangu, sottuento»
per evocare momenti della loro vita «a bordu» delle imbarcazioni.
Il loro linguaggio è scarno, essenziale, ma ricco di immagini evocative capaci di creare particolari suggestioni.
C'erano imbarcazioni che partivano all'alba e tornavano la sera; altre che restavano in mare per giorni e giorni.
Quando non c'era da lottare con i vènti e con il mare, molto del tempo disponibile era riservato alle varie operazioni di pesca.
Gettavano le reti, le «rtiràene» sulla barca dopo ore, selezionavano il pescato mettendolo in cassette, coffe e «pagnerine diverse».
Poi, in caso di necessità, riparavano eventuali danni alle reti ed alle vele.
Naturalmente, sulle imbarcazioni, il cibo base era costituito dal pesce che appena pescato finiva sul «fugò» (il braciere) contenitore di legno o metallo, riempito per metà di sabbia.
Al centro del «fugò» c'era un «tre ppia» (tre piedi) con sopra «'na gratticciata».
Sotto al tre piedi si mettevano i pezzi di legno da ardere.
Durante la notte mentre alcuni restavano al timone o a guardia, altri raggiungevano la poppa e si sistemavano nei «pajericci» della cuccetta per riposare qualche ora su pagliericci imbottiti di foglie secche di granoturco alternandosi nei turni di riposo.
C'erano due o tre pagliericci imbottiti di foglie secche di granuturco e li si buttavano, stanchi del curo lavoro, per riposare, a turni alternati.
La vita di bordo era spesso condizionata dalle condizioni del mare o dalla presenza di vento forte capaci sempre di creare preoccupazione e situazioni a volte drammatiche
con sonseguenti rischi per la vita del pescatore e della sua imbarcazione.
Il pescatore portorecanatese ricorda con orgoglio momenti di estrema drammaticità in mare, affrontati di persona o da parte dei suoi colleghi, e culminati a volte
in modo tragico, altre con insperati salvataggi.