Una marineria di trabaccoli a vela e una flottiglia peschereccia di paranze, barchetti, tartane, babelle, lance, batàne, può resistere senza mutare sostanzialmente le tecniche ereditate e affinate alla perfezione,
fino a quando un fatto nuovo non modifica radicalmente e velocemente qualcosa. La diffusione del motore - al di là di alcuni tentativi pionieristici anteriori alla prima guerra mondiale e subito dopo di essa -
è il fatto sconvolgente degli ultimi anni '20 (e influì anche, sulla sua rapida accelerazione, un terribile nubifragio tardo primaverile del 1927, che fece parecchi morti e sbatté molte barche sulle spiagge e sugli scogli) e del decennio '30-40.
Più che i trabaccoli - ormai soppiantati dai vapori e dalle facili comunicazioni terrestri - se ne avvantaggiano le barche pescherecce, favorite così nelle operazioni di pesca dalla maggior energia disponibile
per trainare le reti, via via più sofisticate, ma ancora di cotone, tinte a mano, legate il battello da funi di canapa.
Un secondo balzo in avanti si ha con il dopoguerra: introduzione di reti e funi di nylon, uso di lampàre, di ramponi adatti a penetrare il fondo, diffusione dei divergenti per tenere aperta la bocca della rete.
Il terzo si collega - anni '50-70 - alla introduzione di radiotelefoni, radar, eco-sonda, bussolle sofisticate, grandi frigoriferi a bordo.
Anche gli impianti a terra subiscono radicali modifiche, a cominciare dai cantieri e dai mercati ittici. San Benedetto, Ancona, Fano sono in testa nella corsa all'innovazione, mentre si fa intenso il consumo del pesce e
crescono gli attriti con la Iugoslavia, per la vivace intraprendenza delle flottiglie italiane, che operano «piratescamente» a ridosso delle isole.
San Benedetto del Tronto, profittando degli incentivi statali (da tempo non è più un porto-spiaggia, ma un vasto e ben organizzato porto artificiale, con lunghe banchine e scali d'alaggio), arma persino una
flotta peschereccia di alto mare, che prima scende nel Mediterraneo e poi affronta l'Atlantico.
C'è da aggiungere il turismo di massa, che scombina l'attività tradizionale: i litorali si coprono di alberghi, i salari nelle attività connesse alla vita di spiaggia sono vantaggiosi, la custodia di barche da diporto è facile e poco onerosa, non è difficile ottenere imbarchi nelle grandi navi, soprattutto petroliere e poi gasiere, e non è impossibile trovare qualche sistemazione nei sempre più numerosi porti costruiti o ampliati nel dopoguerra, specialmente lungo il litorale a sud-est del Cònero e nel porto dorico, vasto, ma non molto vivace, tranne in estate per la corsa ai traghetti delle vacanze (Iugoslavia, Grecia, Turchia, Israele, Egitto), che conosce anche una fortunata affluenza di navi porta-containers e di cornmesse di navi da guerra e di yachts da gran turismo.
Tutto questo ha sfoltito le antiche marinerie pescherecce.
Solo Fano, Ancona, San Benedetto (e un po' Civitanova) reggono ancora, ma il pescato diminuisce non solo per i sistemi di pesca usati (sempre più distruttivi), ma per l'entrata in funzione, da una quindicina di
anni, di barche vongolàre, che per pescare le arselle, esportate in Spagna (ove vengono inscatolate e spedite per il mondo), sconvolgono il fondo marino fin sulla battigia e alle foci dei fiumi, ove il pesce nasce, mentre il
resto lo fanno gli scarichi industriali, le deiezioni animali, i concimi chimici e i fitofarmaci sparsi a mano larga nelle campagne marchigiane.
I nuovi pescatori, considerati dai vecchi e dagli anziani «rozzi predoni del mare», quasi non conoscono il mestiere: le loro barche sono confortevoli, riscaldate in inverno e refrigerate d'estate, dispongono di
tutto, ma mancano di capobarca o paròni capaci di sfruttare il mare senza distruggerne le risorse, come i nuovi coltivatori dei campi, sui quali le macchine e la chimica agiscono indiscriminatamente, massimizzando le
rese, arando tutta la terra tutti gli anni, senza darle un attimo di riposo.
I nuovi pescatori fanno lo stesso: arano il mare con la forza degli 800-1000 HP, capaci di trainare quattro «gabbie» di tre-quattro metri ciascuna, che ripuliscono il fondo di tutto quel che esso genera e ospita con strisce di 12-16 metri.
Una cultura se ne è andata. Il marchigiano rampante delle altre attività economiche si è fatto sentire anche sul mare, nonostante viva lontano dal porto e dalla spiaggia e arrivi sulla banchina con costose automobili.
Infine c'è il surgelato; sempre più diffuso, sempre più mescolato al pesce fresco nei grandi frigoriferi ai quali attingono i mercati locali.
Anche il pesce azzurro, in generale meno pregiato, sta diminuendo.
L'impressione è che l'Adriatico, un mare stretto e poco salato, pieno di scarichi, dai fondali bassi, dragato con ogni tempo dai pescherecci, non possa dare ancora per molto il poco che dà adesso.
"Pescatori e trabaccolanti"
Einaudi Edizioni (1995)