La traccia proposta è stata sviluppata in modo personale con coerenza e logica. L’uso della lingua italiana è corretto e mette in evidenza una buona attitudine a narrare fatti e sensazioni.
Sobbalzo. Piroetta proprio sopra la mia testa. Stava lì fermo, immobile sulla battigia e mi guardava. Velocissimo scende, immerge la testa in mare e la ritrae con un grande pesce sul becco.
Volteggiava sopra di me lentamente, sembrava godersi il panorama. Sembrava fermo invece metteva tutta la sua forza per risalire controvento.
Era una creatura affascinante: così minuscolo e fragile, eppure così grande nei suoi sogni. Quegli occhietti che mi guardavano con intensità celavano mondi sconfinati, pronti ad essere esplorati. Quell’animaletto innocente si era avventurato per il mondo senza una meta, libero di volare per i cieli senza limiti. Vedevo nel loro riflesso il mare, e già lo figuravo a planare nel tramonto, privo di pensieri.
Quanto lo invidiavo quel gabbiano! Se solo fossi stato al posto suo, dove sarei arrivato? Con le mie piccole ali avrei spiccato il volo nell’infinito, nessuno mi avrebbe più fermato. Avrei lasciato tutto: la scuola, lo sport, gli amici, la famiglia. Nessun legame mi avrebbe più vincolato: sarei stato solo nell’universo, mi sarei avventurato dove nessuno era mai arrivato prima di allora. Sarei finalmente stato libero.
Eppure, mentre mi continuava ad osservare con interesse, mi iniziava a sembrare che ci fosse qualcosa di più nella sua testolina. E se non stesse esplorando, quanto invece... scappando?
Provo a fare un passo verso di lui e subito balza all’indietro e spiega le sue ali, pronto a reagire, così torno al mio posto. Il mistero era presto spiegato: fuggiva dalle persone, dai predatori, dalle minacce. Ma avevo la sensazione che non fosse tutto lì. Magari voleva allontanarsi quanto più possibile da qualcos’altro. Il peso delle aspettative, la paura di non essere abbastanza, il senso di responsabilità su qualcosa o qualcuno di più grande di lui. Forse era proprio da tutto questo che correva via.
Strano, mi dicevo. Io, uomo, e lui, gabbiano, alla fine non eravamo così diversi. Oltre la sua apparente spensieratezza c’erano le stesse bestie che affliggevano me, e ragionandoci su capivo sempre meglio quanto ci somigliassimo veramente. Lui scappava in volo per le spiagge, io riempendo la mia vita il più possibile di impegni che mi occupassero tutto il tempo possibile, quindi che cambia?
Quel volatile, che credevo così fortunato, non era invece proprio come me? Anzi, magari era proprio me. Un altro me, nato da altri genitori, con un’altra vita, ma pur sempre me.
Io avevo invidiato lui, lui aveva invidiato me. Quando non si conosce, si invidia.
Eccoci qua invece, a guardarci l’uno negli occhi dell’altro, e in quegli sguardi muti a comunicare infinitamente di più di quanto si può a parole. Ci stavamo aprendo completamente l’uno all’altro, non c’erano più segreti tra noi: eravamo un tutt’uno, io ero gabbiano e lui era uomo, e nessuno ci poteva dividere.
In lontananza si sentivano passi veloci, sempre più prossimi, e ancora, ancora, ancora. Ma l’intensità di quel momento era surreale: né io né lui potevamo distogliere lo sguardo dall’altro. È stato così che con la coda dell’occhio vidi qualcosa: come una meteora, un sasso si avvicinava in volo al cranio del mio nuovo amico. Volevo aiutarlo, ma non potevo farci niente. Le frazioni di secondo mi scorrevano davanti interminabili come ore, e io ero lì impotente. La roccia era sempre più vicina, fino… all’impatto.
Il tempo torna a scorrere come dovrebbe, mi giro: vedo un bambino che ride e poi corre via. Non c’è tempo di pensarci, faccio uno scatto per raggiungere l’altro me. È a terra, la testa è gravemente ferita come da un proiettile. Cerco intorno a me qualcosa per medicarlo, ma quando presto di nuovo lo sguardo al gabbiano questo è immobile. Fermo. Lo guardo in quegli stessi occhietti che tanto mi avevano detto, e poi li vedo spegnersi.
Non era un gabbiano ad essere morto quella sera in spiaggia: era una parte della mia anima, quella che aveva capito di dover affrontare le sue paure.
Era un amico, un compagno, ero io: morto, fuggo via verso il tramonto